mercoledì 19 marzo 2008

Da Dharamsala parla la Guida spirituale
"Agenti cinesi hanno provocato gli scontri"


Il Dalai Lama: "Pronto a dimettermi
se il mio popolo diventa violento"


Appello ai "duri": "La gazzella non batte la tigre, scegliete il dialogo"
di Raimondo Bultrini



<B>Il Dalai Lama: "Pronto a dimettermi<br>se il mio popolo diventa violento"</B>


Il Dalai Lama


DHARAMSALA - Il Dalai Lama dice senza mezzi termini che è pronto a "dimettersi" se la situazione in Tibet dovesse finire "fuori controllo". Lo fa davanti a una piccolo gruppo di giornalisti internazionali venuti qui con noi nella sua residenza circondata da una folla di fedeli in preghiera. Una frase ad effetto che ha fatto presto il giro del mondo, anche se il suo significato è stato da molti interpretato come una rinuncia al ruolo "divino" di Dalai Lama, una carica - almeno finora - non certo elettiva. Da almeno sei secoli infatti, per i buddisti tibetani la sua mente è capace di tornare nella forma umana del leader spirituale dopo ogni morte fisica. Per chiarire meglio questo e altri aspetti emersi nella conferenza stampa, il Dalai Lama ci ha concesso un colloquio esclusivo nel suo ufficio privato.

In che senso ha parlato di dimissioni, Santità?
"A quanti mi hanno accusato di non volere fermare le proteste in corso, ho semplicemente spiegato che io non sono un dittatore, che dice alla sua gente: fai questo, non fare quello. Ho precisato che sono semmai un portavoce del mio popolo. Ma se la maggioranza dei tibetani dovesse prendere la strada della violenza, allora la mia risposta sarebbe quella che ho già dato dopo gli incidenti dell'88: complete dimissioni dal mio ruolo di loro rappresentante".

I cinesi continuano però ad accusare lei di aver istigato le rivolte.
"Sì, dicono che i miei seguaci bruciano i negozi, uccidono innocenti... Ho già detto molte volte: non usate violenza. Bruciare è violenza, uccidere è violenza. Per esempio, in tv ho visto la foto di un khampa (etnia tibetana dell'est, ndr) con una spada. Non è buono, come non è buono l'uso della violenza da parte di chiunque, siano Usa, Cina o Tibet".





Ma i tibetani sembrano stanchi di aspettare e molti dicono di non vedere altre vie d'uscita.
"Certe volte alcuni di questi giovani che vogliono l'indipendenza, esasperati per le ingiustizie, vengono da me con le lacrime agli occhi, vogliono combattere. Allora gli dico: ok, servono un fucile, dieci fucili, un sacco di munizioni. Dove li prendete? Mi rispondono: in Pakistan, Afghanistan. E allora come li spedite? Dal Nepal, impossibile, dall'India, impossibile, dal Pakistan, impossibile. Esprimere le proprie emozioni è facile, ma dobbiamo essere pratici. Può la gazzella lottare con la tigre? L'unica arma, l'unica forza è la giustizia, la Verità. Le spiego con un esempio perché la violenza, oltre che sbagliata, diventa controproducente. Anche durante le proteste degli anni '80 furono accusati i tibetani di certe stragi che - solo dopo - si è scoperto vennero messe in atto da agenti cinesi mandati a provocare tra i rivoltosi. Impossibile fare un controllo indipendente. Altro esempio, nei giorni scorsi a Katmandu ci sono state vetrine rotte e violenze: abbiamo avuto prove che di nuovo sono stati agenti cinesi per creare tensioni tra comunità locale e tibetani. Lo stesso era successo qui a Dharamsala due anni fa, quando fu bruciato il negozio di un indiano".

Anche la sua richiesta di autonomia è rimasta però inascoltata.
"Tra i cinesi più educati grazie all'approccio non violento e non separatista raccogliamo un genuino supporto. Se poi cerchiamo l'aiuto del mondo esterno, dell'India, degli Stati Uniti, dell'Europa, è molto difficile ottenere qualcosa con una richiesta di indipendenza. Certo ci vuole tempo. Con le armi forse si risolvono le cose più rapidamente, ma i problemi si ripresenteranno sempre più gravi. Con la collaborazione e la comprensione si eliminano alla radice. Anche nei regimi totalitari le cose cambiano, la leadership cambia, la politica cambia. La situazione cinese di oggi è diversa da quella passata. Se i cinesi diventassero realistici, in poche ore si risolverebbe ogni controversia. So che diffidano di me, ma potrebbero venire qui a Dharamsala, non c'è niente da nascondere, non potranno vedere i miei polmoni, ma possono vedere il mio portafoglio, le mie urine, le mie feci".

Le sembra realistica un'indagine indipendente?
"Ho scritto una lettera ai nostri amici indiani, americani: per favore, ho detto, aiutateci a raffreddare questo clima terribile. Qualcuno vada a indagare, presto, sul posto, per capire i veri motivi delle tensioni ed evitare che si ripresentino. Per esempio, riceviamo continue informazioni secondo le quali molti tibetani feriti non ricevono assistenza negli ospedali cinesi. Era già successo dopo le manifestazioni dell'87 e dell'88. Ecco come il risentimento riaffiora anche a distanza di venti anni. Certi comportamenti contro la nostra gente hanno segnato le generazioni che oggi hanno 40, 50, 60 anni, ora è una nuova leva a essere trattata allo stesso modo e a ribellarsi: come si pensa di interrompere questo ciclo?".

Domani (oggi ndr) lei incontra i gruppi che hanno organizzato qui in India la marcia verso il Tibet. Che cosa gli dirà?
"Gli chiederò: che cosa andate a fare al confine? Otterrete così l'indipendenza? Come primo risultato mettete il governo indiano in grande difficoltà. L'India ha davvero fatto cose meravigliose per noi, ci ospita da sessant'anni, ha finanziato scuole, assistenza per la comunità tibetana. Al confine inoltre si scontreranno con i soldati cinesi: a quale fine? Il caso Tibet è difficile, delicato, irrisolvibile con decisioni emotive. E in questo clima di tensione è difficile prendere decisioni razionali".

Secondo i cinesi il suo popolo è felice sotto il governo comunista, e che è solo lei a creare problemi.
"Certo, dicono che l'unico problema è il Dalai Lama. Ma vede, io qui sono molto felice, non mi manca niente. In realtà il problema è il Tibet: ogni tibetano che vive all'estero, se viaggia nella nostra terra esce con l'impressione di una situazione terribile, quasi ogni famiglia dagli anni '50, '60, ha subito un lutto, trentamila tibetani sono venuti qui negli ultimi anni. E poi ci sono diverse opinioni tra gli stessi cinesi: alcuni pensano che se il Dalai non ci fosse più le cose sarebbero più facili, altri ritengono che sarebbero invece più difficili. Qual è la verità? In ogni caso non ho intenzione di morire presto...".
Guarda in alto e ride. 

La Repubblica, 19 marzo 2008.QUI.



20 marzo 2008. 0:08


Sangue e compassione l’illusione tibetana


Ugo Leonzio




Che il Tibet sia un paese immaginario inventato dagli occidentali un paio di secoli fa come rifugio dagli illuminismi e poi dalla metastasi della tecnologia dei consumi e dei viaggi «avventura» lo si può vedere dalla falsa coscienza con cui si manifesta con candeline accese e scritte Free Tibet in paesi che per cinquant’anni non hanno mai riconosciuto il Dalai Lama come capo di un governo in esilio. Il Premio Nobel per la Pace, offerto molti anni fa a Tenzin Gyatso, Oceano di Saggezza, è la prova di questa dimensione irreale in cui lo abbiamo collocato.

Per chi compra un viaggio «avventura» Lhasa-Kailash-Samye, il Paese delle Nevi è popolato solo da lama persi in meditazioni profonde tra cime di cristallo traversate da mantra accompagnati dai suoni delle trombe sistemate in cima ai gompa. Chi non è lama o almeno un naljorpa itinerante abituato a meditare in «luoghi di potere», sacre caverne o cimiteri, non suscita alcun interesse nel viaggiatore sprofondato nel suo sonno mistico, motivato da un paesaggio di una bellezza profonda e struggente.

Chi va a Dharamsala per ricevere insegnamenti da Sua Santità o iniziazioni di Kalachakra nelle varie parti del mondo in cui questo monaco forte, saggio e ironico cerca di tener viva l’immagine del suo paese, non si chiede che cosa sia veramente il Tibet, i suoi luoghi, la sua storia, affascinante e contraddittoria come tutte. Alimenta esclusivamente la sua ansia di spiritualità e di «compassione», dimenticando un famoso e sostanziale avvertimento del Budda Sakyamuni: «la via della spiritualità è quella che porta più velocemente all’inferno». Chogyam Trungpa, il più intenso e affascinante lama che provò per primo a spiegare il tantrismo tibetano in America, definì i suoi primi allievi, ansiosi di penetrare nei segreti insegnamenti del tantrismo Vajrayana allacciando proficui legami con divinità Pacifiche e Feroci, «pescecani spirituali». Non era un complimento.

È probabile che qualcosa sia cambiato da allora, il buddismo si è diffuso ovunque e in modo imprevedibile, l’immagine di pace interiore che diffonde è un richiamo troppo forte, un antidoto contro la demoniaca avidità che trasforma la nostra mente in un cannibale afflitto da bulimia anoressica. I lama tibetani che oggi danno insegnamenti, conoscono molto meglio i loro allievi e le loro ansie di «altrove», la sete insaziabile di contemplazione & compassione.

Associazioni non governative come Asia, fondata dal grande lama e insegnante dzog chen Namkhai Norbu, costruiscono in Tibet ospedali e scuole dove si insegna la lingua tibetana e mantengono viva, in centri di studio e di meditazione sparsi in tutte le parti del mondo, la tradizione spirituale e le profonde pratiche del tantrismo tibetano che nel Paese delle Nevi rischiano di scomparire.

Eppure, cinquant’anni dopo la drammatica fuga in India del Dalai Lama e i tragici, sanguinosi fatti di questi giorni a Lhasa, il Tibet è rimasto com’era, un paese che continua a essere un sogno, un’utopia mistica ben radicata nelle mente dei suoi sostenitori e che per questo sembrerebbe possedere meno speranze di ritrovare la sua identità della Birmania, che non è un mito ma un territorio buddista con infinite pagode, monaci con tonache suggestive, stupa d’oro, un regime repressivo, eroina, turisti ecc.

Il Tibet, bod come lo chiamano i tibetani, è diverso. Il Tibet è unico. Anche se privato non solo del suo futuro ma anche del suo passato, anche se rischia di essere inghiottito pericolosamente dal «Paese delle nevi», un sogno disegnato genialmente dal mistico pittore russo Nicholas Roerich e costruito con infinita quanto involontaria perizia dalle geniali spedizioni di Giuseppe Tucci nello Zhang Zhung e da una miriade di film, documentari, spedizioni, scalate, viaggi, libri ed estasi pacifiche e feroci, bod sopravviverà.

La sua malìa incanterà anche i cinesi quando l’ansia di forza e di potenza passerà la mano perché il mutamento è la legge dell’esistenza. Questo insegnamento è probabilmente il primo che sia stato dato dal Buddha, nel Parco dei Daini di Kashi, in riva al Gange, insieme alla constatazione che la vita è dolore. Questo piccolo seme di infinita potenza, trasportato negli infiniti deserti tibetani traversati solo da cumuli di nuvole bianche, ha trasformato il Tibet più di qualsiasi altro paese in cui questo insegnamento sia giunto e abbia attecchito.

Ma non sono stati i selvaggi tibetani, di cui si diceva che fossero predoni, assassini e perfino cannibali (sebbene uno dei primi re ricordati dalle cronache antiche, Podekungyal, vivesse all’epoca dell’imperatore cinese della dinastia Han Wu­ti, un paio di secoli prima di Cristo) a svilupparlo. È stato il paesaggio, la profondità dell’orizzonte, l’altitudine che affila l’ossigeno fino a farlo sparire, a creare le Divinità pacifiche e feroci che dominano l’immaginario delle pratiche tantriche rendendolo diverso da tutte le altre forme buddiste di «pianura».

Le religioni nascono nei deserti ma, si sa, niente è più diverso dei deserti. Solo il silenzio li apparenta. Il silenzio è il luogo privilegiato delle apparizioni. Nessuna pratica mistica è più ricca di apparizione del buddismo tibetano. È un’apparizione incessante di divinità pacifiche e ostili, consolanti o persecutorie, assetate di sangue e di sciroppi di lunga vita, quasi tutte descritte scrupolosamente nel classico Oracles and Demons of Tibet da Réne De Nebesky-Wojkowitz (Tiwari’s Pilgrim Book House). Divinità che cavalcano eventi naturali, furori della natura, venti travolgenti, valanghe, instabili abissi e immobili cime, laghi parlanti e salati. Erano queste apparizioni che davano forma alle pratiche e agli insegnamenti esoterici e non il contrario.

Così l’aspetto e la forma di queste apparizioni hanno finito per dividere in tre gruppi (e svariate scuole) l’insegnamento buddista, anche se la leggenda vuole che il monaco Sakyamuni fin dall’inizio desse insegnamenti semplici ad alcuni ed altri, più segreti, esoterici, occulti a quelli che erano in grado di capirli.

Tutti, comunque, conducevano sul sentiero della liberazione. La differenza consisteva nel tempo e nel numero delle rinascite necessarie per il risveglio. Gli insegnamenti segreti permettevano un risveglio istantaneo, nel corso di una sola vita. Per quelli comuni, bisognava armarsi di pazienza. Decine se non centinaia di nascite e rinascite, di transiti tra vita e morte e tra morte e vita (secondo la legge del karma, cioè di causa ed effetto) erano appena sufficienti per sbirciare fuori dai confini del samsara, il regno della sofferenza in cui ci troviamo adesso (di questo, pochi credo possano dubitare e anche chi dubita, perché baciato dalla fortuna, da un lifting ben riuscito o da una fortunata avventura nel regno dei trapianti svizzeri) farebbe meglio ad aspettare le sorprese immancabili e per nulla consolanti del post mortem. Le pratiche che riguardano questo avvenimento cruciale è il cuore dell’insegnamento del tantrismo tibetano e non appartiene ad alcuna altra scuola buddista.

Per i tibetani e soprattutto per il loro celebre Bardo Thos grol, meglio conosciuto come Libro dei morti tibetano, quando il nostro corpo smette di funzionare e si dissolve, noi non andiamo «a far terra per ceci», ma per la durata di sette settimane viaggiamo in un territorio incredibilmente frustrante, crudele e ingannatore. Il nostro grasso inconscio. Tutto il rimosso, il non detto, il negato ci appare interpretato dalla figure sardoniche, irridenti, affamate del coloratissimo pantheon che soggiorna nei regni oltremondani della nostra mente che scomparirà solo alla fine di questo viaggio estremo.


Il libro dei morti tibetano
dà a tutti le istruzioni per uscire senza danni da questa imbarazzante situazione e in modo più o meno onorevole. Se riconosciamo che quelle spaventose visioni che ci inseguono, ci minacciano e ci terrorizzano mettendo davanti ai nostri occhi la vera identità di chi siamo stati da vivi, sono il prodotto (illusorio) della nostra mente, istantaneamente l’incubo sparisce e in un raggio glorioso di arcobaleno torniamo ad essere quello che siamo sempre stati, senza mai saperlo. Saggezza, luce, onnipotente vuoto da cui ogni forma, ogni pensiero, ogni pensiero deriva in una instancabile gioco d’illusione. I tibetani, lama, monaci, gente comune hanno questa certezza che potrebbero condividere con molti dei fisici quantistici che studiano la «teoria delle stringhe». Tutta la realtà è il riflesso iridescente, ma vuoto, del nulla. Niente ha consistenza, niente è «reale». Il dolore, la sofferenza nascono quando non si riconosce questo stato che imprigiona la nostra mente, privandola della sua perfezione felice.

Allora perché ribellarsi a Lhasa? Perché provocare un bagno di sangue e moltiplicare il dolore se tutto è illusione?

Attaccarsi alla propria casa, al proprio paese non solo è inutile ma può essere una forma di avidità che ci proietterà, dopo morti, in uno dei Sei Loka, i regni della sofferenza che costituiscono il samsara, gravido delle nostre passioni.

C’è qualcosa che divide profondamente l’insegnamento buddista e le sue scuole principali, Hinayana, Mahayana e Vajrayana. La compassione.

Nell’Hinayana si persegue il risveglio da soli. La pratica è etica, morale, devozionale. Ciascuno percorre da solo il Sentiero, essenziale è liberarsi. Mahayana e Vajrayana, invece, mettono al centro degli insegnamenti la Compassione, che vuol dire non uscire dal samsara finché anche il più piccolo, il più insignificante degli insetti non sia stato liberato. Il risveglio di tutti gli esseri è il punto essenziale. È la compassione a condurre, prima delle preziose pratiche occulte, sul sentiero irreversibile del Risveglio. Irreversibile, perché anche se l’illusione ci trascina nel sangue, non ci permette mai di scordare l’irrealtà di quello che stiamo vivendo.

C’è un insegnamento più prezioso di questo?



Pubblicato il: 19.03.08. L'Unità: qui . 


8 commenti:

  1. Che uomo affascinante!
    certo che, coi tempi che corrono, ci vuole una grande coerenza a non cedere all'uso delle armi ed al ricorso alla violenza. soprattutto quando si ritiene di essere dalla parte della giustizia.
    speriamo abbia la ragione dalal sua parte.. ma con 'sti cinesi, la vedo dura!
    Anne

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  2. molto intenso questo articolo,triste e doloroso..deve essere costato molto sforzo..grazie,harmo

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  3. Ammiro la saggezza del Dalai lama ed auguro la libertà per il popolo tibetano. Buon blog, harmonia.

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  4. significativo l'appello del dalai lama...
    un saluto stef

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  5. ...quanta forza sento fluire in Lui...

    grazie, cara Hamonia
    ti abbraccio

    blue

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  6. Ero certa, Dora, che tu non avresti passato in silenzio queste notizie.
    Sono quindi venuta a ritrovarti... forse per trovare la solidarietà che cerco...quella di cuore!
    Troppe parole si spendono, e non sempre coerenti... troppo poco si sa, purtroppo.
    Grazie ancora per lo splendido lavoro che fai... e per quell'amore che dimostri, sempre e comunque, verso il Tibet.
    Ciao, lucilla

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  7. Amica mia, passa da me: troverai una petizione dell'Avaaz per il Tibet da diffondere al più presto! Grazie :) Un bacio,L.

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